In
un locale situato in via Larga (l’attuale via Cavour, 21) si trovava il Caffé
Michelangelo, un luogo in cui gli artisti dell’800 si riunivano per discutere
d’arte e di politica, quest’ultimo argomento assai diffuso fra gli
intellettuali, vista la situazione italiana; e, proprio in quei locali un
gruppo di artisti, intorno al critico Diego Martelli decisero di creare una
corrente pittorica che uscisse dagli schemi tradizionali, in netta contrapposizione
al Romanticismo, al Neoclassicismo e al Purismo Accademico, provocando così una
certa diffidenza da parte dell’Accademia di San Marco diretta da Bezzuoli,
chiusa negli schemi scolastici e didattici dell’arte. Si trattava infatti di
una «rivoluzione di notevole portata per le sorti dell’arte moderna, e per il
dialogo proprio in quegli anni intrapreso fra gli italiani, pertinacemente
ancorati al primato del disegno, e gli artisti delle metropoli europee, portati
invece all’esperimento e alla libera espressione dell’incalzante progresso
sociale e dall’irrequieta palestra» (Carlo Sisi, Presentazione, in
Silvia Bietoletti, I Macchiaioli. La storia. Gli artisti. Le opere,
Firenze, Giunti, 2005, p. 7)
Telemaco Signorini, Mercato Vecchio (Firenze), bozzetto |
I
membri del gruppo erano dieci e tutti operanti a Firenze: Serafino De’ Tivoli
di Livorno, Cristiano Banti di Santa Croce sull’Arno, Vito d’Ancona di Pesaro, Giovanni
Fattori di Livorno, Vincenzo Cabianca di Verona, Giuseppe Abbati di Venezia, Odoardo
Borrani,
Telemaco Signorini e Raffaello Semesi di Firenze, ai quali va aggiunto lo scultore e pittore Adriano Cecioni di Fontebuona.
Telemaco Signorini e Raffaello Semesi di Firenze, ai quali va aggiunto lo scultore e pittore Adriano Cecioni di Fontebuona.
I
più anziani del gruppo si erano radunati nella saletta del Caffé già dal 1850, anche
se la loro opera consisté fino al 1854 nella ribellione verso i dogmi accademici:
erano difatti quelli gli anni in cui si stava affermando il Realismo, e con
esso anche pensieri (come quelli di Champfleury e Duranty) che esaltavano la
natura (e quindi anche la praticità e la realtà) come la sola maestra di vita.
Per questo gli artisti che frequentavano il Caffé, tutti comunque di origine
accademica, cominciarono a denigrare lo studio nelle scuole d’arte, preferendo
ad esso un apprendistato presso qualche famoso maestro, oppure, come loro
stessi facevano, il metodo del “cenacolo” in cui confrontarsi, esponendo e
discutendo delle proprie opinioni.
Odoardo Borrani, La Cappella dei Pazzi (Chiostro di Santa Croce, Firenze) |
Di
grande importanza, per lo sviluppo e la crescita artistica del movimento, fu la
visita all’Expo di Parigi nell’estate del 1855: Saverio Altamura e Serafino De’
Tivoli, i due macchiaoli che vi parteciparono, tornarono a Firenze entusiasti
di ciò che avevano ammirato: lo studio dei «paesisti di Barbizon e la
conoscenza di opere di Delacroix e del Troyon fatta all’epoca a villa Demidoff
a San Donato e, in special modo sui rapporti innovativi di luce e colore che
provocava a chi le osservava una verità scenica, spronarono questi giovani
artisti ad una più approfondita ricerca» (Enciclopedia Treccani, Macchiaoli).
Così tra la fine del 1855 e l’inizio del ’56 Cabianca dipingeva il suo famoso
“maiale nero contro un muro bianco”, considerato il primo studio di “macchia”;
fu però soprattutto il soggetto storico che i frequentatori del Caffé
Michelangelo vollero rinnovare, basandosi sui contrasti del chiaro-scuro, per
rendere più reale la scena, affidata in passato alla descrizione dei
particolari; su questo argomento in special modo lavorò il pittore Giovanni
Fattori lasciandoci delle meravigliose opere.
In
seguito Cecioni chiarì e definì il significato del loro movimento, scrivendo: «La
parola “macchia” ha dato luogo a un malinteso fra gli stessi macchiaioli. Molti
di essi credono che la macchia voglia dire abbozzo, e che lo studio delle
gradazioni e delle parti nella parte, servano a rendere quest’abbozzo finito,
bandisca la macchia dal quadro. Ecco il malinteso; la macchia è base, e come
tale rimane nel quadro. Gli studi della forma e le ricerche del dettaglio hanno
l’ufficio di render conto delle parti che sono in essa, senza distruggerla né
tritarla. Il vero risultato da macchie da colore e di chiaro-scuro, ciascuna
delle quali ha un valore proprio che si misura col mezzo del rapporto. In ogni
macchia questo rapporto ha un doppio valore, come chiaro o scuro e come colore.
Quando si dice: il tono è giusto per colore, ma non per valore, vuol dire che è
troppo chiaro o troppo scuro, rapportato agli altri toni». (Scritti e
Ricordi, Firenze 1905, p. 333.)
Giovanni Fattori |
Fra
il 1855 e il 1862 lavorarono all’aperto, di “macchia” appunto, rappresentando
così sulle tele ciò che vedevano: per la sperimentazione del paesaggio Banti,
Borrani, Pointeau e Signorini si recarono, nella primavera del 1860, a dipingere a
Montelupo e nel Valdarno fiorentino per elaborare un metodo che mettesse
scansioni cromatiche derivate dalla luce del sole e dalle ombre, realizzando così
una tecnica che si basava sul rapporto dei colori, esaltati dai contrasti di
luce e ombra e la macchia, la quale non era altro che la netta essenziale
porzione di colore e che convenientemente accostata, traduceva in immagini
tutto ciò che era in movimento nella vita reale (cfr. Silvia Bietoletti, I
Macchiaioli. La storia. Gli artisti. Le opere, Firenze, Giunti, 2005, pp. 17-18);
piano piano la ricerca di nuove cromie si estese anche in altri luoghi: a
Pargentina sull’Affrico (appena fuori Firenze), a San Marcello Pistoiese, a
Castiglioncello, alla Spezia, a Venezia. Nel luglio del 1858 il giovane artista
francese Edgar Degas, arrivava a Firenze da Roma, vivendo per circa un anno in
una casa di piazza Barban (oggi piazza Indipendenza), accanto alle abitazioni
di Altamura, Banti e Fattori. Proprio in quelle stanze, l’artista iniziò una
tela di cm 200 x 253 raffigurante “La famiglia Bollelli”, con sua zia, le figlie
di lei e il marito, nel loro salotto, eseguendo studi e bozzetti sui valori
luministici del rapporto fra il bianco e nero dei grembiuli e le vesti delle
cuginette; una ricerca pittorica quest’ultima affine ai giovani pittori
fiorentini i quali cercavano, come lui nuovi metodi figurativi, e quasi
certamente influenzata dalla loro vicinanza. L’incontro fra questo artista con
i pittori fiorentini, è stato probabilmente favorito dall’intellettuale
francese Marcellin Desboutin, residente in una villa dell’Ombrellino a Bellosguardo
dal 1857, nella quale invitava artisti e letterati fiorentini e francesi. Ma
già nel 1862, quando il pubblico cominciava ad interessarsi a questa corrente
pittorica e successivamente nel ’74, il Signorini dichiarava che la “macchia”
era stata un modo troppo reciso del chiaro-scuro, un mezzo polemico, un
tentativo ardito e fecondo, ma quasi ormai sorpassato.
Il
nome “Macchiaioli” deriva da un articolo denigratorio, scritto per una loro
esposizione a Firenze nel 1862, da un giornalista della Gazzetta del Popolo che
li paragonava a dei marioli capaci di tutto, e che li chiamò con questo
appellativo, un nomignolo che però piacque al Signorini che, pur polemizzando
sulla Nuova Europa lo adottò per la compagnia; quello però fu anche
l’anno in cui il Caffé Michelangelo venne chiuso privandoli della loro
originaria sede.
Telemaco Signorini, Fonte del Mercato Vecchio, 1874, acquaforte |
Nel
1867 Diego Martelli riuscì a pubblicare la rivista “Gazzettino delle Arti
del Disegno”, con l’intento di promuovere una fonte informativa, critica e
aggiornata su quello che accadeva in campo artistico non solo in Italia ma in tutta
Europa, insistendo sul concetto di arte espressa dai Macchiaioli. La rivista,
purtroppo ebbe un solo anno di vita, segnando con essa lo sgretolarsi del
gruppo, i cui componenti iniziarono ad eseguire opere sempre più personali ed a
dividersi per cause differenti; fra il 1866 e il 1868 erano scomparsi Sernesi e
Abbati, mentre De Tivoli e D’Ancona si erano trasferiti a Parigi, raggiunti in
seguito da Baldini, Zandomenghi e De Nittis, mentre nel frattempo anche
Cabianca si era spostato a Roma, ed anche chi era rimasto in Toscana si era
diviso dai compagni cercando espressioni figurative personali.
Questi
pittori della realtà si espressero anche sul Vecchio Mercato prima della sua
distruzione, raffigurando immagini della sua quotidianità e fra questi il più
fervido fu il pittore Telemaco Signorini che fu rimproverato di piangere sulle
‘porcherie’ che andavano giù (aveva lavorato nella zona sia nel 1882 che nel
1884): oltre ai molti dipinti rappresentanti la vita nel Ghetto, egli pubblicò inoltre
una serie di incisioni che si aprivano con un sonetto dal titolo Mercato
Vecchio, chiuso da questi versi, ‘Addio per sempre Mercato,/ addio studio
di forme e di colore/ dal secolo dei dotti inesplorato’.
Comunque
questi pionieri che hanno rinnovato il modo di concepire l’immagine, hanno lasciato ai posteri
capolavori nei quali i nuovi artisti potevano e possono tuttora studiare e
migliorarsi nella loro ricerca figurativa.
di Chiara ed Enzo Sacchetti
di Chiara ed Enzo Sacchetti
Nessun commento:
Posta un commento
No fare spam o altro. I commenti con questo intento verranno rimossi