sabato 5 maggio 2012

I primi tentantivi di unificazione d’Italia nei secoli bui (888-962 d.c.) (prima parte: Berengario del Friuli)


di Enio Luigi Pecchioni
Il Regno Italico appare già citato alla fine del secolo V, sotto Odoacre, ed è poi menzionato da tutti i sovrani che si impadronirono della Penisola. Ha però veste ufficiale soprattutto da Berengario I al nipote Berengario II. Esso comprendeva parte dell’Italia Settentrionale, parte della Tuscia sino al territorio della Chiesa. Il regno attraversò un periodo storico d’anarchia feudale che cessò con la vittoria dell’imperatore Ottone I su Berengario II.
Il successivo tentativo d’unificazione di Arduino di Ivrea non ebbe seguito; il Regno Italico fu smembrato ed inserito nell’Impero, mentre Pavia, dopo la distruzione del Palazzo Reale, nel 1024, cessava di avere quell’importanza che le era derivata dall’essere stata per un lungo periodo la capitale del regno.

Quando Pipino, figlio di Carlo Magno, che per primo cinse la corona del regno d’Italia (781) calò nella tomba, esso passò a Bernardo che fu in seguito spodestato da Luigi il Pio. A quest’ultimo successe Lotario.
Nell’854 fu incoronato Re d’Italia Luigi II. Nell’875 sul trono di Pavia salì Carlo il Calvo, nell’877 Carlomanno e nell’879 Carlo il Grosso, con cui, ingloriosamente, la dinastia carolingia s’estinse.
L’Italia si trovò allora in preda all’anarchia e in balia delle grandi casate feudali del Friuli e di Ivrea (Arduini, Aleramici, Obertenghi), di Spoleto e di Toscana, alle quali i Re Longobardi e i Re Franchi l’avevano distribuita.

Ogni nobile aspirava alla corona d’Italia, intrigando, corrompendo, arruolando eserciti per combattersi violentemente. Nessuno di questi “potenti” intendeva rinunciare alla propria sovranità e tutti cercavano di appropriarsi del Regno.
Ma per unificare l’Italia non mancava solo la fusione delle varie popolazioni, c’erano altri due grossi ostacoli. Prima di tutto non esisteva il concetto di patria, c’era solo quello di Ducato nato con i Longobardi, e quello di Contea e Marchesato, sviluppatosi sotto i Franchi. L’altro scoglio era la Chiesa, che nell’unità d’Italia vedeva una minaccia al proprio potere temporale e un freno per quello spirituale.
La plebe della penisola non aveva ovviamente voce in capitolo: continuava a vivere in silenzio, nell’indifferenza e nella povertà, coltivando i campicelli dei padroni sperando nella clemenza della natura più che in un aiuto umano: la patria per loro era soltanto il villaggio se non addirittura il casolare.
Dopo la deposizione di Carlo il Grosso, il primo Re italico fu Berengario del Friuli. Di famiglia originaria del basso Reno, figlio di Eberardo del Friuli e di Gisella, figlia di Ludovico il Pio, ottenne il titolo marchionale nell’874 alla morte del fratello Unroch. In mancanza di eredi diretti, Berengario poteva vantare un diritto dinastico sul Regno d’Italia per linea femminile. Inoltre godeva della notevole disponibilità militare della sua marca, creata per difendere i confini orientali del Sacro Romano Impero dalle incursioni degli Ungari e degli Slavi.
Sia il Friuli, baluardo contro le invasioni da nord-est, sia la marca di Spoleto, baluardo contro i musulmani a sud, continuavano a vivere nell’ambiguità che li caratterizzava; erano distretti pubblici a disposizione dell’imperatore, ma in pari tempo territori di potenza feudale in cui le famiglie dominanti cercavano di organizzarsi, con un orientamento dinastico più o meno evidente.
Nell’888 Berengario riuscì a convincere un’apposita dieta di Conti e Vescovi riunitasi a Pavia, capitale del Regno, a farsi eleggere successore di Carlo il Grosso sul trono italiano.
Suo primo avversario fu il duca di Spoleto, Guido, padrone dell’altra grande marca, che seppe mantenere la propria indipendenza contro il papa Stefano V e Carlo il Grosso. Alla morte di quest’ultimo (888) si recò in Francia per ottenere la corona francese che spettò invece ad Oddone, conte di Parigi. Tornato in Italia a bocca asciutta, violando i precedenti accordi, non solo sconfisse Berengario sulla Trebbia vicino a Piacenza nell’889, ma si fece incoronare a Roma imperatore dopo aver ottenuto anche la corona d’Italia. Berengario dovette richiudersi nella marca del Friuli. Guido e poi il figlio Lamberto tennero il regno assieme al titolo imperiale fino all’898.
Guido fu tra i pochi capaci sovrani: riorganizzò lo stato e ne curò la legislazione, emise tra l’altro da Pavia nell’890 vari diplomi a favore della Chiesa. Ad esempio, esistono documenti che testimoniano la concessione al vescovo di Fiesole Zanobi I varie corti e terreni, compresa la Villa di Sala (ora Saletta) che dichiara situata in “comitatu Fesulano et Florentino” (Archivio Capitolare di Fiesole, Sezione I, Pergamene).
Ma proiettiamoci subito in quel marasma feudale con i suoi nuovi pretendenti.
Il primo fu Arnolfo di Carinzia, figlio illegittimo di Carlomanno, il quale solamente dopo la nascita di Arnolfo ne sposò la madre. Nel 876 Arnolfo fu nominato ”Prefetto della Marca Orientale” e nell’880, alla morte del padre, duca di Carinzia. Combattè a lungo contro Svatopluk (re di Moravia) e contro i Normanni.Nel novembre 887 successe a Carlo il Grosso, divenendo Re dei Franchi Orientali.
Nell’888 Arnolfo venne in Italia, per assumere la corona che era andata a Berengario del Friuli. Berengario gli giurò fedeltà, ma l’anno successivo, purtroppo per Arnolfo e Berengario, come abbiamo visto, il trono passò al duca Guido di Spoleto.
Nell’894 chiamato da Berengario e dal Papa Formoso per spodestare Guido, Arnolfo ritornò in Italia, conquistò Bergamo, Milano e Pavia, dove si fece riconoscere re d’Italia in contrapposizione al re d’Italia e Imperatore Guido di Spoleto.Si dice che il Re di Carinzia soffrisse di reumatismi e il clima umido del Nord Italia glieli ridestò; non andò nemmeno a Roma dal Papa che lo aveva invitato; dopo poche settimane fece ritorno in Germania.
Alla morte di Guido nel dicembre dell’894, fu la volta del figlio Lamberto che era stato associato al trono; ci furono di nuovo grandi tumulti nel regno con tradimenti e passaggi dall’uno all’altro fronte. Arnolfo occupò ancora una volta l’Italia settentrionale, ma venne sconfitto nell’895 da Berengario e da Lamberto di Spoleto. Solo nell’896, dopo che Lamberto fu spodestato, Arnolfo venne eletto imperatore, e incoronato da papa Formoso. L’incoronazione di Arnolfo venne però dichiarata nulla dal successore di Formoso, papa Giovanni IX.
Arnolfo morì a Ratisbona nell’899 e venne sepolto nel convento di Sant’Emmeram a Regensburg.

Precedentemente Lamberto, anch’egli incoronato imperatore da papa Formoso nell’892, successe al padre. Il governo fu in prevalenza tenuto da Ageltrude, sua madre. Il papa, preoccupato dall’invadenza e dalle pretese della nobildonna, si rivolse per aiuto al re di Germania Arnolfo. Come abbiamo visto sopra, Arnolfo intervenne e approfittò dell’occasione per rivendicare la corona imperiale (896); ma appena Arnolfo ebbe ripassato le Alpi, Lamberto si recò a Roma e si fece riconfermare la corona da papa Giovanni IX, successore di Formoso.
Poco dopo nel sinodo di Ravenna, Lamberto riuscì ad imporre la sua autorità e poi ad eliminare un nuovo potente avversario, Adalberto di Toscana, da lui sconfitto a Borgo San Donnino (Faenza).
Adalberto II di Toscana, conte, duca, marchese, governò da Lucca la Tuscia all’incirca dall’898 al 915. Abile e spregiudicato, fu fra i più potenti feudatari del tempo ed ebbe gran ruolo nelle lotte per la corona del regno italico; sua figlia Ermengarda sposò Adalberto marchese d’Ivrea.
Lamberto rimasto padrone della situazione, fece pace con Berengario e ripartì per Pavia dove però a Marengo, durante una partita di caccia al cinghiale, cadde da cavallo e si fracassò la testa. Spirò poco dopo senza aver ripreso conoscenza, anche se qualcuno attribuì la sua morte a una coppa di veleno. Con lui si estinse la linea maschile dei duchi di Spoleto.

Lamberto ebbe il soprannome di “
Imperatore di Spoleto”, battezzato così dai suoi nemici per deriderlo.

A questo punto mentre Berengario aveva quasi il completo possesso del regno, fu incapace di opporsi agli Ungari che pare fossero assoldati segretamente da Adalberto II di Toscana, e che si erano spinti nell’Italia settentrionale (ebbero una vittoria sull’Adda 24 settembre 898).
Il pesante rovescio militare contro gli Ungari subito da Berengario, lo squalificò agli occhi dei suoi alleati e degli avversari politici, dimostrando la sua incapacità a difendere l’Italia settentrionale. Ecco dunque che fu la volta di Ludovico di Provenza.
I nobili dell’Italia del nord, a causa delle scorrerie degli Ungari, fecero appello a Ludovico di venire in Italia a frenare le invasioni.

Ludovico accettò l’invito e giunse in Italia, dove il re Berengario del Friuli abbandonato da tutti, si era ritirato al di là del Mincio, per cui Ludovico conquistò Pavia e il 12 ottobre 900 fu incoronato re d’Italia. Poi, accompagnato dai maggiorenti feudali, proseguì per Roma, dove, nel febbraio del 901, il papa Benedetto IV
“forse l’unico uomo mite e d’indole schiettamente sacerdotale” di quel periodo torbido, lo cinse della corona imperiale.
Nel 902 Berengario, ripreso fiato, marciò su Pavia con un grosso esercito, assediò Ludovico e lo costrinse a ritirarsi in Provenza, con la promessa che non tornasse più in Italia.
In quel periodo di politica truffaldina, fra giuri e spergiuri, gli accordi furono momentanei, perché nel 905 Ludovico ritornò in Italia, chiamato nuovamente dai feudatari. Berengario, trovandosi in quel momento in inferiorità di alleati e di esercito, si ritirò, ma non potè chiudersi in Verona, sua principale roccaforte, perché il vescovo della città aveva aperto le porte a Ludovico, che la occupò.
Ludovico pensò di aver vinto la partita quando Berengario si rifugiò al di là delle Alpi, in Baviera. Ben presto Berengario rientrò in Italia e con l’aiuto di truppe Bavaresi; a Verona colse di sorpresa Ludovico e lo fece prigioniero. Siccome Ludovico aveva infranto il giuramento di non ritornare il Italia, fu fatto accecare da Berengario che si riprese la corona d’Italia. Per mantenere il suo primato, Berengario elargì a più riprese concessioni feudali vastissime in favore di potenti famiglie marchionali, confermò con la protezione i patrimoni ecclesiastici, rinnovò e concesse immunità, donò zone di servitù e mansi, montagne selvose, elargì diritti di pesca e navigazione.
Ludovico, divenuto il Cieco, ritornato nella sua capitale Vienne, riconoscendo di non essere più in grado di resistere alle pressioni dei suoi feudatari a causa della menomazione, designò come aiutante il cugino Ugo conte di Arles, che dopo essere divenuto reggente, portò la capitale della Provenza nella sua città.
Intanto, Papa Giovanni X per limitare l’espansione araba nell’Italia meridionale, decise di espellere una grossa comunità mussulmana insiedatasi presso il fiume Garigliano, chiedendo a Berengario un appoggio militare in cambio del titolo imperiale. Berengario accettò, inviando una forza composta da feudatari dell’Italia settentrionale, con il patrizio Nicolò Picingli che insieme al magister militum Teofilatto ed esponenti della nobiltà romana, a Gregorio duca di Napoli, Pandolfo e Landolfo di Capua-Benevento, Docibile di Gaeta, sconfissero le forze musulmane nella Battaglia del Garigliano nella piana sotto Roccamonfina (quella del Vulcano). Così Berengario scese a Roma nel dicembre del 915 ottenendo l’incoronazione imperiale con l’omaggio feudale dei diversi marchesi.
Ma il successo non poteva essere duraturo.
In apparenza, visti tutti i nemici che aveva Berengario, non avrebbe dovuto essere un’impresa difficile eliminarlo. In realtà non c’era principe italiano in grado di affrontarlo, perché gli unici con eserciti sufficientemente potenti per poterlo sconfiggere erano i figli di Adalberto di Tuscia. Ma Guido e Lamberto, a dispetto della madre Berta, continuavano a rimanergli fedeli. Perciò non rimase altro che cercare qualcuno al di là delle Alpi e la scelta cadde su Rodolfo di Borgogna.
Quest’ultimo però tentennava, avendo problemi in patria, e Berta cercò dunque di mettere in campo suo genero Adalberto di Ivrea. In momenti difficili non si va molto sul sottile nella scelta degli alleati e un decano chiese all’intrepido Giselberto Samsom di organizzare una congiura in favore del marchese d’Ivrea.
Il conte Giselberto di Bergamo era pronto e risoluto più di altri, ma qualcuno lo tradì all’ultimo momento non facendoli pervenire truppe fresche. Berengario gli inviò contro un’orda di ungari che si era accampata presso Brescia, pagando i crudeli selvaggi con oro del regno. Fu un eccidio nel quale perì il conte Olderico, mentre Adalberto dovette fuggire a Ivrea e Giselberto a Roma.
A Roma Giselberto, continuando nella lotta, riuscì a convincere alcuni influenti prelati di poter prendere la lancia di Longino, il ferro che aveva trafitto il costato del Salvatore, e portare la sacra reliquia a Rodolfo di Borgogna. Giunto da Rodolfo, Giselberto accompagnò il gesto più o meno con queste parole: “
Potente re, questa santa reliquia vi garantirà la vittoria. Ma se non valicherete le Alpi per togliere dalla testa di Berengario la corona, essa si ritorcerà contro di voi e i vostri discendenti”.
A tal punto non ci furono dubbi sull’accettazione della missione. Rodolfo radunò un grande esercito e scese in Italia.
Rodolfo fece sosta ad Ivrea accolto a braccia aperte da Ermengarda, moglie di Adalberto e ai primi di febbraio dell’anno 923 entrò in Pavia dove fu incoronato re d’Italia. Avrebbe voluto essere anche unto imperatore, ma papa Giovanni si rifiutò di concederlo per timore di perdere la protezione di Berengario.
Quest’ultimo si era ritirato a Verona e stava preparando un contrattacco. Lo scontro avvenne a Fiorenzuola d’Arda (923), Berengario fu sconfitto con pesanti perdite (ca. 1500 morti). Berengario scampò a stento alla carneficina nascondendosi fra un mucchio di cadaveri e solo col calare delle tenebre potè mettersi in salvo riparando a Verona. Il 7 aprile 924 fu assassinato mentre pregava in una chiesa, da due sicari inviati da un suo vassallo, che mise fine così alla guerra.
Rodolfo governò quindi sia l’Italia che la Borgogna, risiedendo alternativamente in ambedue i regni.
Berengario era stato un personaggio bigotto, scaltro e violento: Alcuni storici e una certa retorica nazionalistica hanno fatto di lui un campione e un assertore dell’unità d’Italia. In realtà non fu che uno dei tanti tirannelli che governarono in quel periodo la penisola, solo più ambizioso e risoluto degli altri (Indro Montanelli).
fine prima parte

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