Una lapide messa a
memoria in via de’ Bardi, posta di fronte al Palazzo Camignati ci ricorda che
per ben tre volte il Poggio de’ Magnoli era franato sulle case sottostanti a
causa di piogge e alluvioni da parte dell’Arno: ed infatti ne vennero distrutte
più di cinquanta nel 1248 «per un diluvio d’acqua»; case che vennero di nuovo
ricostruite, e che subirono la stessa sorte una seconda volta.
Porta San Giorgio |
La terza catastrofe
avvenne il 12 novembre 1547, nella quale furono distrutte diciotto case, oltre
al Palazzo dei Bardi e quello dei Del Nero,
oltre alla Madonna del Cardellino
di Raffaello, andata in 17 pezzi e restaurata da Ridolfo del Ghirlandaio: a
seguito di questo evento Cosimo I proibì la costruzione di edifici in quell’area
come attesta una lapide posta al numero 18 della strada, lapide che deve essere
tornata recentemente utile non molti mesi or sono, dopo la frana del Lungarno
posto fra il Ponte Vecchio e quello alla Grazie, perchè sulla testata di un
giornale era scritto che la suddetta collina si stava spostando; anche se in
merito ad una possibile tragedia nessuna delle case o palazzi c’è stata un
evacuazione di persone: forse la natura della lettura della lapide sarà stata
una divergenza economica di responsabilità dato che il muro del Lungarno che
guarda il fiume sembrava un prato verde.
Veniamo al racconto
di ciò che avvenne quel tragico giorno del XVI secolo: tra gli scampati al
disastro ci fu un ragazzo di undici anni, e come ci scrive il Baldinucci, egli «forse
a cagione di volta, o di palco, che gli facesse riparo, rimase coperto si, ma
non morto, né offeso dalle rovine; e perché niuna cosa mancasse che potesse
cooperare al suo scampo, restò nella rotta muraglia tanta apertura che bastava
per tramandare al di fuori le strida del misero fanciullo...», e ci dice,
proseguendo il racconto «nel frattempo il fanciullino se ne stava in quel luogo
chiedendo aiuto, fra la gente che quivi si affollava, gettando per entro
quell’apertura chi pane e chi altra cosa per sostenerlo in vita, finché fosse
tolta via la gran montagna di sassi e di calcina che lo ricopriva, passò uno
staffiere del Duca Cosimo, ed atterrito da così fatta novità, subito ne portò
l’avviso al palazzo del suo signore».
Bernardo Buontalenti |
Il granduca mandò
in soccorso altra gente per aiutare a salvare il ragazzo e quando questi venne
tratto fuori dalla macerie lo fece portare a Palazzo Vecchio, sostenendolo e
facendolo studiare, divenendo in seguito uno dei più grandi architetti
dell’epoca; il nome del ragazzo era Bernardo Buontalenti. (La disgrazia e la
lapide sono tornati di recente alla ribalta della cronaca, esponendo la
criticità della tenuta del terreno collinare dopo il crollo del Lungarno sulla
testata di un giornale; lo scopo? la disgrazia forse è dipeso dalla responsabilità
di incuria di cui purtroppo la città di Firenze è soggetta; ed il caso ancora
più strano è il fatto che non sono stati notificati allontanamenti di residenti
nella zona.)
Lavorò sia per
Cosimo I, ed alla morte di questo per il figlio Francesco I con il quale aveva
avuto nel tempo un rapporto di amicizia; sin dalla giovinezza era divenuto
allievo sia del Vasari che del pittore Salvati, studiando nel frattempo le
opere architettoniche di Michelangelo per il quale, nel 1564 partecipò alle
esequie pubbliche dell’artista con una tela, andata disgraziatamente perduta,
che rappresentava i grandi fiumi del mondo.
Dopo la morte del
Vasari, avvenuta nel 1574, divenne l’Architetto di Corte occupandosi di
interventi urbanistici, tra i quali l’ampliamento della città di Livorno, e
l’apparato fatto nel Battistero fiorentino per il battesimo del principe
Filippo, avvenuto nel 1577, oltre a realizzare per la corte medicea feste,
spettacoli, e giochi pirotecnici, dei quali i loro disegni sono tuttora
conservati agli Uffizi.
Mura di Livorno |
Completò il
complesso degli Uffizi, realizzando nell’ingresso dell’antica chiesa di San
Pier Scheraggio, tra il 1583 ed il 1586 un teatro, il Giardino di Boboli,
mentre nel 1564 fu, insieme ad altri, un collaboratore di Baldassarre Lanci
nella costruzione di Terra del Sole, estendendo la sua conoscenza anche alla
Fortificazione moderna, come nel caso del Forte di Belvedere, ed anche riguardo
alle mura delle città prodigandosi infatti a quelle di svariate città come
Pistoia, Grosseto, Sansepolcro, Prato, Portoferraio e Napoli perfezionando
anche le armi ed inventando la
Granata incendiaria.
Oltre che a
costruzioni militari, si cimentò a costruzioni religiose come nel 1593 innalzò
la facciata della chiesa di Santa Trinita, sostituendo quella medievale e nel
1601 eseguì l’Altare del Crocifisso dei Bianchi nella chiesa di Santo Spirito,
e altre opere ancora.
Le sue conoscenze
si estesero anche all’oreficeria, alla ceramica e all’ebanisteria, disegnando
arredi e oggetti preziosi per la corte medicea; come architetto nel 1568
progettò il Palazzo di Bianca Cappello, in via Maggio, la Villa di Pratolino
(costruzione andata distrutta) tra il 1569-1575 con la grandiosa scultura
dell’Appennino, il suo parco con fontane, le quali creavano sfruttando la luce
dei giochi d’acqua e soprattutto gli automi, una sorta di antesignani dei robot
che portavano qualsiasi cosa venisse messo sopra; nel 1569 sistemò la Villa Medicea di Lappeggi,
progettando nel 1570 la Villa
di Trefiano e, molte altre vennero da lui ristrutturate e progettate.
L'Appennino nella Villa di Pratolino |
Negli anni, il Buontalenti,
si era economicamente rovinato e venne salvato grazie al Granduca, il quale gli
concesse una pensione; morì il 6 giugno 1608 ed il suo corpo venne sepolto
nella tomba di famiglia posta nella chiesa di San Niccolò d’Oltrarno.
Nel Giardino di
Boboli si può ammirare le decorazioni interne di due grotte da lui eseguite:
una è la Grotticina
della Madama fatta nel 1570 e, l’altra eseguita nel 1575 che porta appunto il
suo nome; vediamo come è strutturata.
All’esterno,
il suo ingresso è posto tra due colonne sormontate da un architrave con sopra i
suoi capitelli creazioni spugnose assomiglianti a stalagmiti che sembrano
colate dall’apertura della lunetta posta sopra di esse con creazioni di
stalattiti, mentre ai lati dell’ingresso due nicchie contengono due opere di
Baccio Bandinelli rappresentanti “Cerere e Apollo”.
La
parte superiore della facciata è dominata da una grande lunetta con due cornici
a mosaico di ciottoli logorati dentro i quali troviamo stucchi con festoni e
Capricorni marini, mentre il timpano ha sopra ciascun bordo creazioni spugnose
con al centro lo stemma della famiglia Medici; poco sotto due figure femminili
in posizione sdraiata eseguite a bassorilievo.
Interno della Grotta |
Entrando
nella prima stanza troviamo elementi di Architettura, scultura e Pittura
confondersi armoniosamente fra loro, presentando un tema legato all’alchimia,
un argomento particolarmente caro a Francesco I: cioè il caos che attraverso la
metamorfosi trova ordine a armonia; infatti dalle pareti sia le rocce,
stalattiti, spugne e conchiglie paiono animarsi in figure antropomorfe e
zoomorfe, scolpite dallo stuccatore Pietro Mati, mentre ai quattro lati della
stanza si trovano le copie delle Prigioni, le quali essendo scolpite soltanto a
metà sembrano uscire dalle rocce; infine la scena prende la forma di una
grotta, nella quale si rifugiano i pastori per sfuggire ed anche meglio
difendersi dagli animali selvatici ed anche gli affreschi di Bernardino
Poccetti, che molto bene si inseriscono con il resto della scena arrivano fino
ad un soffitto decorato come se fosse un pergolato con un oculo aperto al
centro che illumina ulteriormente l’ambiente.
Un
elemento che ulteriormente aumentava la bellezza della grotta e che per
sfortuna al momento non è possibile ammirare erano i giochi d’acqua che
all’epoca valorizzavano la bellezza di questo capolavoro dei quali sono state
trovate evidenti tracce durante il restauro eseguito durante la fine degli anni
novanta del secolo scorso nel quale vennero alla luce molti canalini in
terracotta, che facevano scendere dal
soffitto delle gocce d’acqua creando uno spettacolo di luci e riflessi, mentre
dall’oculo del soffitto, secondo il progetto originale, si trovava una vasca
con dei pesci, mentre nella fontana che tutt’oggi è posta al centro del locale
una roccia trasudava acqua.
Procedendo
nella seconda stanza, molto più piccola della precedente,si vedono riportate le
stesse decorazioni della prima, cioè stalattiti, conchiglie ed affreschi,
mentre sulle pareti laterali due dipinti racchiusi un due nicchie, anch’esse
dipinte raffigurano “Giunone e Minerva”, ed al centro troneggia un gruppo
marmoreo, opera di di Vincenzo de’ Rossi del 1560, il quale rappresenta “il
Rapimento di Elena da parte di Paride” oppure secondo alcuni “Teseo e Arianna”.
La
terza ed anche ultima stanza è anch’essa decorata come fosse una grotta nella
quale volano nel cielo degli uccelli con al centro un opera del Giamboligna, la
fontana “della Venere che esce dal bagno” nella quale la dea troneggia sopra la
vasca sopra la quale quattro satiri si arrampicano insidiandola e gli spruzzano
acqua.
L’interpretazione
del complesso è ritenuto quasi sicuramente a sfondo erotico, perché nella prima
stanza la “visitatrice” rimaneva stordita dal senso del magnifico e del
grottesco, mentre nella seconda la bellezza e il rapimento dava ad intendere i
tentativi di approccio; nella terza la nudità di Venere implicava la ricerca di
un rapporto.
Qualunque
sia l’opinione degli esperti riguardo il significato dell’opera; questa è, e
rimarrà in grande capolavoro da ammirare.
di Enzo Sacchetti
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